Parlare
della mente in astratto è un’abilità complessa e si rendono
quindi necessarie delle attività di mediazione in grado di guidare
il passaggio dal piano esterno, azioni e reazioni, al piano interno:
credenze, desideri, emozioni, percezioni. Molte ricerche, prime fra
tutte quelle di Bruner (1986; 1991), testimoniano come una delle
attività più efficaci in tal senso sia il racconto o la lettura
di storie.
La duplicità di scenario tipica di ogni narrativa:
“lo scenario dell’azione” (i fatti, gli eventi) e
“lo scenario della coscienza” (le reazioni interne)
costituisce infatti un punto di vista privilegiato da cui esplorare
le dinamiche interne e le loro manifestazioni. Attraverso i
personaggi e gli eventi delle storie, il bambino impara a conoscere
come funziona il mondo degli uomini e quello delle cose, a
riconoscere le emozioni e a nominarle, comprende gli stati della
mente (credere, desiderare, dubitare) e si serve delle parole delle
storie per parlare dei suoi pensieri e degli stati d’animo. In altri termini, i racconti innescano un processo
di identificazione empatica che assolve una funzione
vicaria, per la quale il bambino “usa” la mente e l’emotività
dei personaggi come “specchio” per intravedere i propri processi
cognitivi ed emotivi e sviluppare una certa familiarità con la mente
dell’altro.
Gli
studi hanno anche dimostrato però che non è sufficiente il racconto
in sé a promuovere la consapevolezza degli stati interni propri ed
altrui, quanto piuttosto i discorsi che si animano intorno al
racconto, stimolandone la rielaborazione riflessiva. Si tratta di
quel “dialogo metacognitivo” con cui l’adulto rende “leggibile”
e “intelligibile” agli occhi del bambino il rapporto tra i due
scenari, ossia tra eventi della storia e reazioni interne dei
personaggi. Lo scambio dialogico non consiste di sole domande e
risposte, ma implica la “risposta partecipativa”
dell’adulto; questa consiste in una modalità di interazione con il
piccolo basata su strategie di riconoscimento e apprezzamento dei
suoi progressi, di supporto nella costruzione delle risposte, di
esplorazione collaborativa degli stati della mente.
La “risposta partecipativa” comprende un insieme di
strategie in grado di dotare il formato interattivo del racconto di
quella tonalità metacognitiva e, insieme, affettivo-emotiva che
gratifica l’impegno conoscitivo del bambino e che rende la
narrazione un’attività attesa e desiderata.
La
narrazione offre un’eccezionale possibilità di far emergere la
consapevolezza degli stati mentali dei bambini e la loro capacità di
descriverli, comprenderli, metterli in relazione con sé stessi e gli
altri. Con riferimento alla prospettiva
bruneriana, si distinguono all’interno della trama
due aspetti: quello dell’azione (landscape of action), cioè
lo svolgersi degli eventi, e quello della consapevolezza (landscape
of consciousness), ossia l’aspetto metarappresentazionale relativo
agli stati interni dei personaggi. Da questa prospettiva nascono
diverse metodologie e procedure che fanno della storia uno strumento,
un mezzo per analizzare da un lato e sviluppare dall’altro la
consapevolezza degli stati mentali nei bambini e l’evoluzione, la
crescita della padronanza del lessico psicologico. Tali metodologie
si basano sul co-costruire storie con una coppia adulto-bambino o
bambino-bambino (o gruppo classe), sul completamento di una storia
dato un incipit, sull’inventare o ricostruire storie basandosi su
immagini, illustrazioni, fotografie, sul raccontare storie ed
approfondirle con attività correlate.
Per la
prima grande area di queste metodologie, dove il bambino è chiamato
a completare, inventare, commentare una strategia efficace è quella
dell’utilizzo di libri illustrati, spesso privi di parole, come ad
esempio “Frog, Where are you?”
(Rana, dove sei?) in cui sono illustrate le avventure di un bambino e
del suo cane alla ricerca della loro rana, andata perduta. La storia
qui citata è stata impiegata con successo in diversi studi sulla
competenza narrativa e linguistica ( Cameron e Wang 1999; Losh 2001;
Reilly, Bates e Marchman 1998; Reilly, Klima e Bellugi 1990; Reilly
2004) ed introdotta nella ricerca sulla narrazione degli stati
psicologici condotta da Baumgartner e Devescovi (2001).
La
seconda area invece si basa sul racconto di una storia da parte di un
adulto e su delle attività costruite in relazione agli stati interni
dei personaggi: lo Story Telling consiste per l’appunto nella
lettura di storie effettuata da un adulto a dei bambini, integrata
dall’animazione attraverso diverse tecniche, prima, durante e dopo
la narrazione.
Utilizzare una storia per avvicinarsi al mondo
interiore del bambino è un metodo rispettoso, efficace, delicato e
meno invasivo rispetto a domande dirette, che potrebbero essere
fraintese, non comprese e potrebbero dar luogo a reazioni di
chiusura. Le immagini cariche di significati che emergono dalla
narrazione attirano al loro interno il bambino, gli permettono di
identificarsi, imparando a conoscere meglio le emozioni e le
situazioni in cui si situano attraverso dapprima gli occhi, il corpo,
il pensiero di un personaggio e quindi di fare proprie queste nuove
conoscenze. Il bambino impara così un nuovo lessico, adeguato a
descrivere ciò che prova, che gli permette di sviluppare piano piano
quella competenza lessicale e simbolica necessaria affinché la
parola diventi immagine-metafora dell’emozione e strumento di
comunicazione e gestione dell’emozione stessa.
Francesca Dal Ben